Facciamo Buona Impresa

Nicoletta Alessi, Fondatore e Presidente di Goodpoint. Esperta di Responsabilità Sociale d’Impresa, Terzo Settore e Partnership tra profit e non profit.
Filosofa di formazione (e di indole), a un certo punto ha capito che le persone le piacevano più dei libri.
Inizia a lavorare per Ai.Bi. Amici dei Bambini, Organizzazione Non Governativa per la Tutela dei Diritti dell’Infanzia come Responsabile Raccolta Fondi, Comunicazione ed Eventi. Dopo qualche anno, sente il bisogno di “vedere cosa c’è dall’altra parte” e conoscere meglio il mondo dell’impresa: tra il 2004 e il 2008 collabora con l’agenzia di comunicazione D’Antona&Partners su progetti di CSR, Comunicazione Interna, Crisis Recovery e Stakeholder Relation Management.
Nel 2008 torna al sociale come libera professionista e nel 2011 fonda Goodpoint, che in un certo senso è un modo di mettere insieme le sue due anime: Impresa e Sociale. Dal 2012, attraverso Goodpoint, ricopre il ruolo di CSR Manager per la Alessi S.p.A., l’azienda di famiglia.
Nel 2014 diventa mamma di Alice, nel 2017 di Tobia. E questo vale un paio di master in organizzazione d’impresa.


 
1. Fondatrice e Presidente di Goodpoint, società di consulenza nata con l’obiettivo di contribuire allo sviluppo di una comunità più responsabile, aiutando le persone e le organizzazioni a interpretare e realizzare al meglio il proprio ruolo sociale. Da quale idea nasce il progetto e quale gap si propone di colmare?

Goodpoint nasce con l’obiettivo di favorire il superamento della tradizionale dicotomia tra “impresa” e “sociale”, per la quale da una parte c’è chi si occupa di soldi, e dall’altra chi si occupa di bene comune.

L’idea era quella di aiutare, da un lato, le imprese a vedere il rilevantissimo ruolo sociale che svolgono, supportandole a svolgerlo con più consapevolezza e responsabilità possibile; dall’altro le organizzazioni non profit, che pur nascendo con una missione sociale hanno bisogno di imparare a vedersi e a operare come “buone imprese”, organizzativamente ed economicamente sostenibili.

2. Quando una “buona impresa” può dirsi realmente tale oggi?

La Buona Impresa – intesa nel senso del paradigma promosso da Fondazione Buon Lavoro, che noi adottiamo nella nostra attività di consulenza – è un orientamento, non un risultato: nessuna è veramente e perfettamente Buona nei risultati (perché è un orientamento difficile!) ma in qualche modo è Buona qualsiasi impresa che scelga di praticarlo (perché è un orientamento inclusivo).

Scegliere questo orientamento significa scegliere un approccio all’impresa che sia allo stesso tempo sistemico (non puro scopo di lucro, ma uno scopo integrato che metta sullo stesso piano del profitto la realizzazione di un buon prodotto e l’offerta di un buon lavoro); inclusivo (volto a perseguire il proprio bene non sottraendo valore dagli interlocutori, ma al contrario creandone per loro); umanista (che veda le persone “sempre anche come fini, mai solo come mezzi”); trasparente (inteso come volto alla creazione e condivisione di senso, con tutti gli interlocutori); sostenibile (first “do no significant harm”).

3. Marzo è il mese delle STEM. Partendo dalla sua esperienza personale di imprenditrice, ci racconta quali sono gli ingredienti di empowerment femminile che possono fare la differenza?

Personalmente sono stata molto fortunata nel mio percorso di studi e lavoro perché, indipendentemente dal mio genere, ho avuto tutte le opportunità che penso facciano la differenza: una grande libertà di scelta, l’opportunità di formarmi approfondendo i miei interessi, e infine quella di fare di queste passioni un lavoro. Ancora oggi accade che l’essere femmina è la ragione per la quale queste cose non sono possibili, e mi pare un’ingiustizia francamente intollerabile, oltre che un grande danno per la società.

Il vero scontro con la questione del mio genere io l’ho avuto quando, da imprenditrice, sono diventata mamma. Ma in questo caso non so se si tratta di empowerment delle donne (io penso che le mamme lavoratrici siano dei supereroi già così) ma di creare le condizioni sociali e culturali per un maggior equilibrio familiare, e forse anche un pensiero nuovo sul lavoro in sé, che consenta a maschi e femmine di gestire meglio il proprio tempo.

4. Il giving back, ossia la restituzione del valore a beneficio della comunità è una delle pratiche dell’economia sostenibile. Quale ruolo secondo lei svolge l’educazione finanziaria per la realizzazione di una società equa e di uno sviluppo umano sostenibile?

A me personalmente non piace il concetto di “restituzione”, perché presuppone che si sia indebitamente sottratto qualcosa a qualcuno. Io credo che un’economia sostenibile sia innanzitutto un’economia che crea valore per tutti i soggetti coinvolti e per la società, mentre persegue il profitto. In questo senso l’educazione finanziaria è sicuramente uno strumento imprescindibile, perché aiuta a creare quella ricchezza che, se responsabilmente generata ed equamente condivisa, è essa stessa un fattore di sviluppo sociale.

Dopodiché certo, esiste anche un tema di redistribuzione della ricchezza, nel quale la filantropia individuale può svolgere un ruolo importante: anche in questo senso saper gestire il denaro, averne rispetto direi quasi, è non solo un modo di aumentare le opportunità di impatto sociale, ma prima ancora un fattore di consapevolezza rispetto alle proprie possibilità e responsabilità.