John Maynard Keynes
John Maynard Keynes è stato senza dubbio l’economista più influente del ventesimo secolo. Influenza dovuta non solo al suo acume scientifico ma anche all’autorità esercitata sul piano intellettuale nell’ambito di una serie di eventi di primaria importanza storica come la conferenza di pace di Versailles alla fine della prima guerra mondiale e gli accordi di Bretton Woods alla fine della seconda.
La vita
Keynes nasce a Cambridge nel 1883 da una famiglia che offriva un ambiente particolarmente favorevole per chi avesse talento speculativo e volesse dedicarsi allo studio delle discipline sociali ed economiche. Il padre, infatti, insegnava economia presso la prestigiosa università della città mentre la madre era una intellettuale impegnata nel riconoscimento dei diritti civili.
Il giovane Keynes studia prima presso la prestigiosa scuola di Eton e poi presso l’Università di Cambridge dove si laurea in economia con una tesi sulla teoria della probabilità. Dopo il conseguimento della laurea, inizia un percorso in cui mescola l’attività accademica di insegnamento e ricerca a quella di funzionario dello Stato e di consulente ministeriale. A volte l’accademia diventa un rifugio quando, in disaccordo con le decisioni dei politici, Keynes abbandona gli incarichi di consulenza. In ogni caso, il desiderio di incidere sugli avvenimenti e di applicare le sue idee al governo dell’economia sarà una costante della sua esistenza. Di fatto Keynes mantiene entrambi i ruoli, quello di accademico e quello di intellettuale prestato al governo del paese, fino alla sua morte nel 1946.
Le idee
Gli studiosi sostengono che il sistema teorico keynesiano possa essere pienamente compreso solo combinando le idee contenute in vari libri e scritti scientifici. In ogni caso, una elaborazione organica e piuttosto completa di questo sistema è presente nella sua opera più famosa, la Teoria Generale dell’Occupazione, dell’Interesse e della Moneta (1936).
L’elemento più rivoluzionario dell’opera di Keynes è la teoria per cui i sistemi capitalistici sono, per loro stessa natura, sempre esposti al rischio che la domanda di beni sui mercati sia troppo bassa. Quando la domanda è troppo bassa, le imprese accumulano scorte di magazzino di beni invenduti e, di conseguenza, riducono i livelli produttivi e licenziano parte della loro forza lavoro. In definitiva, per Keynes i sistemi capitalistici sono sempre esposti al rischio di generare una disoccupazione eccessiva.
Prima di Keynes, il paradigma scientifico dominante, ispirandosi alla mano invisibile di Smith, riponeva una grande fiducia nella capacità del libero mercato di rimediare alle cosiddette situazioni di disequilibrio. In questo contesto, gli episodi di elevata disoccupazione non potevano essere esclusi a priori ma erano ritenuti tutto sommato poco degni di considerazione in quanto avrebbero avuto una durata molto breve. Infatti, il libero gioco della domanda e dell’offerta nel mercato del lavoro avrebbe condotto, in presenza di disoccupazione, ad una riduzione dei salari. I lavoratori disoccupati sarebbero cioè stati disposti a lavorare per salari inferiori rispetto ai salari pagati ai lavoratori occupati. I lavoratori occupati, a loro volta, avrebbero accettato una decurtazione dei loro salari per difendersi dalla concorrenza dei disoccupati. Insomma, la disoccupazione avrebbe abbassato i salari e i salari più bassi avrebbero stimolato la richiesta di un numero maggiore di lavoratori da parte delle imprese. I salari più bassi avrebbero cioè consentito di riassorbire la disoccupazione che, di conseguenza, poteva essere solamente un fenomeno di breve durata. Inoltre, non solo la disoccupazione si riassorbe in breve tempo, ma è anche vero che la disoccupazione sorgerà solo raramente. Secondo gli economisti pre-keynesiani, infatti, la domanda è di norma sempre sufficiente ad acquistare i beni prodotti per cui, di norma, le imprese non accumulano scorte di beni invenduti e non abbassano i loro livelli produttivi ed occupazionali. Si tratta della famosa legge di Say per cui “l’offerta genera la domanda”.
In breve, l’argomento della legge di Say è il seguente. Non è possibile che la domanda per beni di consumo e per beni di investimento sia insufficiente ad acquistare la produzione perché, se così fosse, allora i tassi di interesse si abbasserebbero e ciò stimolerebbe gli investimenti da parte delle imprese. Soprattutto gli investimenti finanziati con i prestiti bancari in quanto interessi più bassi significherebbero, per le imprese, costi finanziari inferiori. In altri termini, la riduzione dei tassi di interesse incentiva la domanda di beni di investimento e, quindi, la domanda complessiva. Se ci fosse una crisi di domanda troppo bassa questa crisi rientrerebbe in breve tempo proprio grazie alla riduzione dei tassi di interesse. Ancora una volta, come per il mercato del lavoro, anche per il mercato dei beni si ripone una assoluta fiducia nella capacità dell’economia di raggiungere l’equilibrio tra domanda ed offerta.
La legge di Say era un caposaldo della teoria economica pre-keynesiana per cui contraddirla poteva anche significare mettere a repentaglio la propria carriera accademica. Eppure, la demolizione di questa legge sul piano teorico era per Keynes un passaggio necessario se desiderava affermare il principio di una inerente tendenza delle economie di mercato a generare disoccupazione.
Il punto di attacco di Keynes alla legge di Say rappresenta una delle parti più brillanti del suo sistema teorico. Per Keynes, la regola per cui la domanda è sempre sufficiente ad acquistare i beni prodotti è semplicemente sbagliata perché il tasso di interesse non influenza in modo determinante gli investimenti delle imprese. Per Keynes, infatti, gli investimenti non dipendono solo dai tassi di interesse ma, cogliendo un aspetto importante della pratica degli affari, essi dipendono anche e soprattutto da ciò che gli imprenditori si aspettano per il futuro della loro impresa. Se sono ottimisti investiranno anche con tassi di interesse elevati mentre, se sono pessimisti, non investiranno anche se i tassi di interesse sono bassi. Ne segue che, se la domanda dovesse rivelarsi insufficiente, il calo del tasso di interesse non sarebbe in grado di far aumentare l’investimento per cui la domanda potrebbe rimanere a livelli bassi anche per lunghi periodi di tempo. Questo significa bassa produzione ed elevata disoccupazione anche per un discreto numero di anni.
Nel sistema di Keynes, dunque, non è la produzione che genera la domanda quanto piuttosto la domanda che genera la produzione. Se la domanda aumenta, le scorte di magazzino si assottigliano e le imprese aumenteranno la produzione e l’occupazione. Per converso, se la domanda si riduce, l’invenduto cresce e le imprese ridurranno produzione ed occupazione. Insomma è la domanda la variabile trainante mentre la produzione segue semplicemente i movimenti della domanda. Si tratta del celebre principio della domanda effettiva.
In aggiunta, l’elevata disoccupazione che si genera per effetto di una bassa domanda difficilmente potrà essere riassorbita attraverso una riduzione dei salari. Per Keynes, il mercato del lavoro è troppo diverso dagli altri mercati per sperare che esso operi sulla base degli stessi meccanismi. I sindacati ed i contratti collettivi, ad esempio, impediscono ai disoccupati di insidiare gli occupati offrendosi a salari più bassi. Senza contare che diversi fattori di ordine psicologico e sociologico fanno sorgere nei lavoratori una forte resistenza nei confronti di una riduzione dei loro salari. In definitiva, esistono molte ragioni per cui, anche a fronte di una elevata disoccupazione, i salari non si abbasseranno o si abbasseranno molto lentamente. Per questo motivo la disoccupazione tende a durare nel tempo piuttosto che a scomparire in pochi mesi come ritenevano gli economisti pre-keynesiani.
Probabilmente, se l’economia mondiale non avesse conosciuto la Grande Depressione degli anni ’30, la sola forza delle idee non avrebbe consentito a Keynes di rivoluzionare la scienza economica. Ma uno scenario di disoccupazione elevata e duratura come quella di quegli anni era semplicemente incompatibile con la legge di Say ed, in generale, con lo schema dell’ortodossia pre-keynesiana. I fatti e gli eventi offrivano a Keynes una indubbia posizione di vantaggio per attaccare l’ortodossia e proporre una visione del mondo diversa.
Da questa visione del mondo emergeva poi con chiarezza la ricetta che avrebbe dovuto essere adottata per far fronte alla recessione. Se la recessione era il frutto di una scarsa domanda di beni allora, per uscirne, occorreva semplicemente generare domanda addizionale attraverso la spesa pubblica. Un vasto programma di opere pubbliche, ad esempio, avrebbe sicuramente aiutato ad uscire dalla recessione ed ad assorbire la disoccupazione.
In seguito alla pubblicazione della Teoria Generale, l’influenza delle idee e delle indicazioni di Keynes fu notevole sia in Europa che negli Stati Uniti. L’economista divenne un ascoltato consulente del presidente Roosevelt ed ispirò le misure americane di uscita dalla recessione. Gli schemi keynesiani hanno di fatto influenzato la politica economica nel corso degli anni ’50 e ’60, un periodo caratterizzato da eccezionale stabilità e prosperità per tutti i paesi industrializzati.
L’evoluzione della scienza economica ha nel corso degli anni ripristinato una certa fiducia nell’autoregolazione spontanea del capitalismo ma sono pochi gli economisti che oggi ritengono che la spesa pubblica e, più in generale, la politica economica non costituisca uno strumento efficace per ridurre la disoccupazione. A più di settanta anni dalla pubblicazione della Teoria Generale, l’impressione che si ricava è che le idee di Keynes godano ancora di un’ottima salute e, soprattutto, continuino a rappresentare un riferimento intellettuale imprescindibile quando si tratta di agire per fronteggiare una fase di crisi economica.